«La grande estate ferisce; in quell’orizzonte che si spalanca c’è tutto e anche tutto quello che si è perduto e si continuerà a perdere. E’ così facile – anche se davanti a quel mare non si capisce come possa accadere – scordare di essere figli di re e andarsene per il mondo a bussare come mendicanti a porte straniere».
Casuali compagni di viaggio, improvvisamente alla ribalta. Da un paio di giorni, per casi del tutto fortuiti e ben prima dunque dell’emergenza oggi offertasi alla divampante polemica del web, ho iniziato la lettura di Microcosmi, di Claudio Magris.
Non amo seguire l’onda dei Premi e delle gratulazioni, se non – forse – al contrario. Ne sfuggo, se il libro è di ‘moda’; tento di lasciar sedimentare, e di acquistare per me stessa una prospettiva forse più matura, meno coinvolta.
La dilazione, in me l’attesa, può durare qualche anno, o qualche decennio: se il filo resta, se la ragnatela tenta ancora e per motivi sostanziali, piuttosto scialle di seta intricato e suggestivo di significati o velario su un palcoscenico vibrante, che lascito sospeso di malaccorte pulizie, la lettura mi fluisce poi più nitida, affascinata, le evocazioni intertestuali più consapevoli…
Sono peraltro proprio agli inizi: ancora al «Caffè San Marco», in una Trieste sempre in me velata di nostalgia. Seduta al Caffè, che «per chi vuole sgranchirsi le gambe e fare un piccolo giro del mondo è situato in un’ottima posizione».
Né sfuggirò a banalità peraltro dal banale distaccandomi: tuttavia non ho mai ritenuto – e non per velleità d’aspirazioni mancate – che non potessi viaggiare (l’infinito viaggiare?) anche solo intricandomi tra le righe e le parole e le pagine d’un libro, quelle Città invisibili…
Così sfilo via – tra i «gomitoli del tempo» – tra l’infinitamente piccolo infinitamente grande, nel moltiplicarsi inseguito di prospettive, ricerca sfinita e senza fine (né fines) di un senso e di πολυτροπία, esule coscienza accesa in una «odissea letteraria», che in fondo non meno per me «è quella che racconta il viaggio al nulla e il ritorno», anch’io, lector, come l’autore cosciente – quale non lo era meno un Calvino («superior stabat…»*) – che «viaggiare, come raccontare – come vivere – è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un’altra».
(E conoscere, pure, non è perdere?)
« […] ogni estate è unica e irripetibile, una dopo l’altra sfilano come i grani di un rosario, il tempo li arrotonda come sassi sulla spiaggia, fra l’uno e l’altro si apre un infinito».
*Le citazioni sono attribuibili a Claudio Magris: ma quel superior stabat [Italo Calvino] allude, con netta inversione, alla dedica («A Umberto, superior stabat lector, longeque inferior Italo Calvino») con cui questi inviò a Eco il suo Se una notte d’inverno un viaggiatore.., dedica in cui era evidente una ‘risposta’ a Lector in fabula (sul quale qui miei appunti). Eco riprende l’episodio nel suo Sei passeggiate nei boschi narrativi, 1994.
et quod sequitur
Maria Amici
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