Amore e Patria era il nome del primissimo romanzo, dedicato alla guerra di indipendenza americana, composto da Verga all’età di sedici anni: lo si riteneva disperso. Non diversa sorte subivano i manoscritti della prima stesura de I Malavoglia, le bozze del Mastro Don Gesualdo, de La Lupa, de I carbonari della montagna; le primissime stesure di tre romanzi mai finiti del “Ciclo dei vinti”: La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso; le corrispondenze con Gabriele D’Annunzio, Luigi Capuana, Benedetto Croce, con Luigi Pirandello…
In realtà, attorno a questo e altro materiale, si aggrovigliava e infittiva di mistero una vicenda tortuosa, che ricordava più Todo modo o Il quinto evangelio o evidentemente non lontani trafugamenti di filologi medievali e umanisti, eroici ricercatori del Codice, ma sviliti in una assai meno dignitosa concorrenza nel sottrarsi, l’uno alla biblioteca degli altri, manoscritti originali o archetipi rari…
Incautamente – mai avverbio fu più appropriato – negli anni Trenta dello scorso secolo,
“36 manoscritti (romanzi e novelle), migliaia di stampe fotografiche di lettere, centinaia di lettere autografe, bozze, disegni e appunti di Giovanni Verga…„
sarebbero stati affidati – qui il verbo si trova a forte disagio – da Giovanni Verga Patriarca, figlio dello scrittore, ad uno studioso di Barcellona, cittadina della provincia di Messina. Malgrado le azioni legali profuse, poi addirittura interrogazioni parlamentari sollecitanti l’“esproprio per ragioni di pubblica utilità”, protrattesi per decenni, lo studioso prima, i suoi eredi poi, si sarebbero rifiutati di riconsegnare agli eredi Verga il patrimonio letterario detenuto: e finanche di farlo inventariare.
Gli eredi dello scrittore nel frattempo avrebbero venduto nel suo complesso alla Regione Sicilia l’intero corpus di materiale autografo: la Sicilia, sì, l’acquistò in blocco, ma per decenni non entrò mai in possesso di quest’ennesimo suo patrimonio latitante.
La Soprintendenza ai Beni Librari della Regione Lombardia avrebbe poi recentemente individuato, per di più in precario stato di conservazione, il materiale ‘transfuga’ (invero una sua parte) messo in vendita presso una casa d’aste di Milano assai rinomata: ne sarebbe stato disposto il deposito temporaneo presso il Centro di ricerca del Fondo manoscritti dell’Università di Pavia intitolato a Maria Corti (ove è tuttora custodito). L’operazione dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale seguitò con ulteriori perquisizioni da parte della Procura di Roma, presso la casa dell’erede dello studioso, grazie alle quali sarebbe stato recuperato un ingente quantitativo di manoscritti e documenti verghiani …insieme con una corposa serie di oggetti archeologici integri provenienti da scavo clandestino, ugualmente posta sotto sequestro penale…
Oggi il materiale – manoscritti, carte, ed inoltre decine di scatole contenenti microfilm con le riproduzioni di lettere e manoscritti, e migliaia di fotografie di lettere e documenti, compresi degli acquerelli delle scenografie per la prima di una pièce a Milano al teatro Manzoni nel 1885 – attende d’essere ricongiunto al resto del Fondo Giovanni Verga…
Tra questi, lo schizzo d’un uomo barbuto pare sia un profilo autografo e firmato di Luigi Pirandello, che avrebbe apposto accanto una frase – venendo da lui – inquietante nella sua apparente, ingenua semplicità: «questo sono io».
L’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Roma, iniziata nel 2012, ha concluso dunque una vicenda scabrosa intricatasi via via per circa ottant’anni tra aule parlamentari e giudiziarie, o in chissà quali oscure cantine, piuttosto che sulle scrivanie di filologi e nelle pubbliche biblioteche, quale monumentum d’interesse culturale internazionale: chissà cosa avrebbe saputo scriverne la penna di un Borges, di un Pirandello, di uno Sciascia…
..et quod sequitur…
Maria Amici
21 luglio 2013 at 23:53
[…] Chissà cosa ne avrebbero scritto…. […]