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“Nenè e Ninì”, novella di Luigi Pirandello

– Novelle per un anno –

Nenè e Ninì

Novella di Luigi Pirandello, pubblicata sul Corriere della Sera del 31 marzo 1912, poi nella raccolta La trappola, Treves, Milano 1915 e in Novelle per un anno, La rallegrata, 1922.

In tale edizione, qui ripresa, possiamo leggerla sull’inestimabile PirandelloWeb.

Nell’elaborazione pirandelliana, come scrive Gioanola* in un libro che percorro in lettura ultimamente,

“la tematica matrimoniale convoca soprattutto una fenomenologia della sventura, colorandosi di tonalità tra il drammatico e il grottesco […] coi risvolti più orripilanti causati dai legami matrimoniali”.

Pirandello: Novelle per un anno: La rallegrata, 1922 - copertinaPirandello peraltro la complica, denunciando storture e condizioni intese come irrevocabili nella loro atavicità e collegandole a tali esiti avversi: e suggerisce – impensabilmente, nel fraintendimento di base di alcuni critici che usano sottolinearne invece la misoginia e il conservatorismo – un legame di consequenzialità.

Nell’esordio di Nenè e Ninì è delineata in pochi tratti la situazione di partenza: una bella, giovane vedova senza famiglia d’origine e con due bambini, un maschietto e una femminuccia, si sente scoraggiata dalla propria (prevedibile) inesperienza. Tale premessa è congegnata a intersecarsi ad un dato critico: subito si precisa che in tale situazione è

«il pensiero d’un maschio da educare»

a indurre la donna a riprender marito, scelta che altrimenti forse non avrebbe fatto.

Pirandello, a destra vicino alla madre (?), col primogenito Stefano; a sinistra il cognato mostra il figlio. Antonietta è seduta all'estrema sinistra della foto

Pirandello, a destra vicino alla madre (?), col primogenito Stefano (?), a sinistra il cognato mostra il figlio. Antonietta è seduta all’estrema sinistra della foto

Sottintesa, e più volte ribadita dunque, è infatti la problematicità della condizione femminile, la schiacciante inferiorità: una donna sola, per di più portata – come d’uso – a sminuire la prospettiva dell’educazione di una figlia femmina (infatti si rileva che non si tratta solo di un disagio per la differenza di genere e di abitudini), è impensierita di fronte a quella, più articolata e dispendiosa, di un figlio maschio, cui evidentemente annette maggior valore: perché, peraltro, nel suo condizionamento, è la società in cui vive a farlo.

Ugualmente, appena più avanti, dinanzi alla alternativa che si pone nel dover salvare la madre o i figli, è la fattrice/educatrice a esser privilegiata, e i feti-neonati, evidentemente considerati rimpiazzabili, ad esser sacrificati, sull’altare anch’essi del

«troppo pensiero di Ninì».

Ma con tutto questo la giovane donna muore ugualmente ed è il nuovo marito a “dovere” prendersi cura della famigliola e della casa.

«Nenè e Niní restarono orfani anche di madre, con uno che non sapevano neppure come si chiamasse, né che cosa stesse a rappresentar lì in casa loro».

Pirandello, foto di famiglia con moglie e bambini piccoli (Lietta, Fausto, Stefano seduto a terra)

Pirandello, foto di famiglia con moglie e bambini piccoli (Lietta, Fausto, Stefano seduto a terra)

Il vedovo-patrigno dunque si ritrova proiettato in una condizione – in Pirandello in più intertestualità testimoniata eco di quella esistenziale – di completa ‘estraneità’, che prelude allo straniamento:

 «la casa non era sua, la dote non era sua, quei due figliuoli non erano suoi».

I due figli non suoi, chiusi, nei confronti del patrigno, in una ruvida e malfidata ‘alterità’, sono una sorta di specchio oscuro sostitutivo dei gemelli cui è stato negato di nascere: quella promessa non mantenuta ha un corrispettivo paradossale e amaro.

La trappola, progetto di copertina, olio su tela, cm 35 - 23. Immagine reperita sul web

La trappola, progetto di copertina, olio su tela, cm 35 – 23. Immagine reperita sul web

Eppure l’uomo non può fuggire, non può sottrarsi: interviene un altro procedimento tipicamente pirandelliano, la trappola.

Analogamente, infatti, nei vicini si costituisce immediatamente il processo di “stanza della tortura”*, per citare la nota espressione inaugurata per il teatro pirandelliano da Giovanni Macchia, per cui i personaggi da sé o dall’(ossessiva) osservazione sociale – segno della cristallizzazione cui peraltro la vita stessa costringe – sono come sequestrati* e distaccati da se stessi, sistematicamente fraintesi nei loro intendimenti e negli atti, particolarmente – e soprattutto – quelli più dignitosi e reinterpretati a misura dell’altrui meschinità, dell’altrui opportunismo.

Il vedovo si prende cura diligentemente della casa e dei figlioli acquisiti, non fa loro mancare nulla, né di materiale né nell’educazione: ma è invece continuamente vittima di una costruzione, al limite della psicosi, di un mondo persecutorio (di fatto, non da lui immaginato) da parte del pregiudizio del vicinato, alternativo alla realtà e basato – ed è un’altra contraddizione radicata in criteri di giudizio arcaici – sul non avvenente aspetto fisico, o almeno così ritiene egli, non sapendo individuare altre motivazioni.

Anche il suo nome, peraltro, Erminio Del Donzello, sembra quasi ribadire la tragica, anzi specificamente umoristica caricaturalità imposta del personaggio.

Luigi Pirandello - Anni '10?Ed è un asserto considerato quasi dogmaticamente in quel ‘tribunale’ un’altra doppia proiezione: sia cioè che egli costringerà, prendendo moglie, i due piccoli a servirla e che essi avrebbero presto seguito, per di più senz’altro «soppressi» dalla donna-‘orco’, la sorte della loro madre e dei fratellini, sia una fosca illazione che adduceva la morte di questi ultimi ad una non meglio chiarita «giusta e ben meritata punizione»:

«Nessuna pietà, nessuna considerazione per lui, in tutto quel vicinato, per la sua doppia sciagura. Pareva anzi che la morte della moglie e delle sue creaturine gemelle fosse giudicata da tutti come una giusta e ben meritata punizione.

Tutta la pietà era per i due orfanelli, di cui in astratto si considerava la sorte. Ecco qua: il patrigno, adesso, senza alcun dubbio, avrebbe ripreso moglie: una megera, certo, una tiranna; ne avrebbe avuto chi sa quanti figliuoli, a cui Nenè e Ninì sarebbero stati costretti a far da servi, fintanto che, a furia di maltrattamenti, di sevizie, prima l’una e poi l’altro, sarebbero stati soppressi».

 pirandelloCon la causticità maturata negli anni, Pirandello ulteriormente fa precisare al narratore come tale moglie il vicinato la aspettasse, quasi in fibrillazione e nel paradosso: ogni famiglia aveva

«almeno una ragazza da marito; e tutte, senza eccezione, queste ragazze da marito sarebbero state mammine svisceratamente amorose di quei due orfanelli; perfida tiranna, spietata megera sarebbe stata solo quell’una, che il professor Erminio Del Donzello avrebbe scelto tra esse».

 Ed egli sempre più sentiva crescere in sé

 «paura delle suocere. Perché ognuna di quelle mamme disilluse sarebbe certo diventata subito una suocera per lui; tutte quante si sarebbero costituite mamme postume della sua povera moglie defunta, e nonne di quei due orfanelli»,

 nelle cui menti peraltro non si peritavano di instillare i loro sospetti maligni:

 «che prevenzioni, che sospetti insinuavano nelle loro animucce? e che paure?»

Lina (Lietta) Stefano e Fausto Pirandello, 1901– E nel lettore alla commozione instillata dalla «lingua ancora imbrogliata» dei due bambini fa eco l’indignazione per il continuo, spietato lavaggio del cervello cui sono sottoposti e che li rende irriconoscibili:

«Già Nenè, che s’era fatta una bella bamboccetta vispa e tosta […] s’impostava fieramente incontro alle minacce immaginarie, ai maltrattamenti, ai soprusi della futura matrigna, che le vicine le facevano balenare; e mostrando il piccolo pugno chiuso, gridava:
– E io l’ammazzo!
Subito, all’atto, quelle le si precipitavano addosso, se la strappavano, per soffocarla di baci e di carezze.
– Oh cara! Amore! Angelo! Sí, cara, cosí! Perché tutto è tuo, sai? […] ci siamo qua noi, a farli stare a dovere, tanto lei che lui, non dubitare, ci siamo qua noi per te e per Ninì!
Ninì era un badalone grosso grosso, pacioso, con le gambette un po’ a roncolo e la lingua ancora imbrogliata. Quando Nenè, la sorellina, levava il pugno e gridava: «E io l’ammazzo!» si voltava piano piano a guardarla e domandava con voce cupa e con placida serietà:
L’ammassi davero?»

 Peraltro anche nell’uomo si fa man mano strada la «necessità ineluttabile» di quella decisione: e poiché quasi nessuno dei personaggi pirandelliani è un ‘eroe’ (ed è già fortunato se, pur non un Oreste, è un Amleto come distingue un noto passo de Il fu Mattia Pascal) né esiste quella purezza d’amore da Pirandello auspicata e venerata, a tale sposa nelle sue considerazioni (ribadendo la subalternità della condizione della donna non meno peraltro che la degradazione dell’uomo) il vedovo – così come l’altro di Prima notte (qui su Nephelai) – assegna la risposta alle funzionalità primarie/primitive: badare alla casa, ai figli, alle esigenze sessuali dell’uomo ancor giovane*.

Luigi Pirandello e Antonietta sulla terrazza della casa in via Sistina, Roma - immagine in pubblico dominio in Italia

Luigi Pirandello e Antonietta nella casa in via Sistina, Roma

In fondo, anche la prima volta

 «aveva preso moglie perché la vita di scapolo, quell’andare accattando l’amore, non gli era parso più compatibile con la sua età e con la sua dignità di professore».

 Infine sposa una «casta zitella attempata», estranea al vicinato, ritenendo – anche qui una proiezione – di non scontentare nessuno: invece anch’ella rimane coinvolta nella ridda di critiche, di malignità e implicite prevaricazioni che di fatto la paralizzano nella cura della casa e degli orfani cui si dedica, orfani ormai ‘spodestati’ non dai genitori acquisiti nei loro diritti sulla casa, ma dalle loro stesse menti dai condizionamenti esterni.

Così,

 «il professor Erminio Del Donzello pareva in pochi mesi invecchiato di dieci anni»

Foto di famiglia 1888: i genitori Stefano e Caterina, i fratelli Enzo e Giovanni, la  sorella Annetta. N.b. sul libro che il padre tiene fra le mani, una mano ignota ha scritto a penna Mal Giocondo

Foto di famiglia 1888: i genitori Stefano e Caterina, i fratelli Enzo e Giovanni, la sorella Annetta. N.b. sul libro che il padre tiene fra le mani, una mano ignota ha scritto a penna Mal Giocondo

e non sa neppure lui tirarsi fuori dal meccanismo perverso in cui è rimasto coinvolto dall’esterno e che a sua volta ricostruisce con proprie rappresentazioni mentali sull’orlo della follia, sul «destino» di cui sarebbero stati non vittima ma autori e ‘portatori sani’ i due bambini, addirittura loro (e ritorce così non meno farneticando l’accusa del vicinato) ‘responsabili’ della morte della madre a loro immolata in quanto risposatasi per provvedere a loro dopo la morte del padre: e poi nel circuito degenere che si era attivato sarebbe toccato a lui, che a sua volta aveva perso la prima moglie e ora la vita stessa.. e poi ancora, dopo, sarebbe toccato alla nuova sposa, che si sarebbe rimaritata ancora per badare ai figliastri e poi…

«e così, via via, un’infinita sequela di sostituti genitori sarebbe passata in poco tempo per quella casa»

 tutti votati alla morte, al sacrificio umano imposto sin dalla notte dei tempi dalla sopravvivenza delle nuove generazioni.

E a quest’amara conclusione, in fondo, Pirandello voleva condurre: così come, terribile, ne La distruzione dell’uomo, e, non meno, nello stesso 1912, ne La trappola, dove il flusso espressivo che prende voce e non corpo esclama:

«Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!»

Foto scattata nel giorno del fidanzamento di Lietta. Da sinistra, Fausto, Luigi, Lietta, ?, Stefano?; alle spalle di Lietta, il fidanzato, il maggiore Manuel Aguirre Humeres, addetto militare dell'Ambasciata del Cile presso il Quirinale

Foto scattata nel giorno del fidanzamento di Lietta. Da sinistra, Fausto, Luigi, Lietta, ?, Stefano?; alle spalle di Lietta, il fidanzato, il maggiore Manuel Aguirre Humeres, addetto militare dell’Ambasciata del Cile presso il Quirinale

Il consiglio del curato, che dovrebbe sbloccare l’impasse educativa cui sono costretti i due genitori, di non temere d’usare la forza necessaria, invece provvede a adempiere quello che pareva il destino segnato: il professore viene denunciato per sevizie mai compiute, ne ha un tracollo e con un filo di voce, prima di morire, non riesce ad altro che consigliare alla moglie (con una vena di aspra vendetta per quel Toto che l’aveva denunciato) di non esimersi dalla ruota ancestrale dei matrimoni:

«Sposa, sposa quel Toto, cara, della signora Ninfa. Non temere; verrai presto a raggiungermi. E lascia allora che provveda lui, insieme con l’altra, a quei due piccini. Stai pur certa, cara, che morrà presto anche lui»

 Intanto, nella loro perfida innocenza, «ignari e felici» i bambini seguitano a giocare col «pappagalletto imbalsamato», ancora ribadendo persino in quella «lingua imbrogliata» il proprio acre coinvolgimento – certo indotto ma sintomo di umanità degradata – nel cruento cannibalismo umano degli adulti che cresce e si moltiplica:

 « – Mao, ti strozzo! – diceva Nenè.
E Ninì, voltandosi, con la lingua imbrogliata:
– Lo strossi davero?»*

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 Un consiglio per la bibliografia
– e note –

Macchia Pirandello o la stanza della tortura copertina* Elio Gioanola, in Pirandello’s story: la vita o si vive o si scrive, Milano : Jaca Book, 2007, p. 266.

* Giovanni Macchia è autore del fortunato Pirandello o La stanza della tortura, Milano : Mondadori, 1981.
Un articolo sulla edizione aggiornata del saggio nel Corriere della Sera del 25.05.2000 Pirandello. L’autore in cerca di un pubblico da torturare a firma dello stesso Macchia.

 * Ma si rimanda ai saggi di Macchia, per l’accezione ben più complessa. Il critico si è soffermato poliedricamente su vari aspetti della tematica ne Il personaggio sequestrato, Atti dello psicodramma n.6-7 (reperibile qui) e sul meritorio PirandelloWeb, tratto da Pirandello o la stanza della …, cit.

pirandello teatro con un saggio di giovanni macchia Copertina* Dover rispondere, da uomo rimasto solo, alle pur cogenti necessità sessuali – e peraltro non limitando la prospettiva solo a quelle -, con il senso profondo della solitudine e dello scarto di dignità, pare un fil rouge di amara consapevolezza d’avvilita umanità, che Pirandello riproporrà nel complesso personaggio del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore, degli uomini de L’uomo solo, nel protagonista de L’uscita del vedovo, negli altri vedovi protagonisti di Chi la paga, de I piedi sull’erba, di Ma non è una cosa seria, e non solo: e altresì della donna vedova, non a caso di nome Leuca, in bilico tra purezza e ambiguità, disgusto e desiderio, di Pena di vivere così).

Pirandello verso i 40 anni?* Quelle peculiari tenerezze della «lingua ancora imbrogliata» Pirandello le avrà riprese dalla vita quotidiana con tre figli piccoli pur in quella babele o «inferno» di casa (così desolato la definisce nella nota lettera ad Ojetti, ripresa qui su Nephelai) che solo talora gli concedeva finestre di affettuosità ricambiata nel continuo sacrificio di una dedizione e di un lavoro necessari, intessuti di dignità e comprensione.

i tre figli di Pirandello ragazzini: Fausto, Stefano, LiettaNel suo libro biografico incentrato su Lietta e Antonietta – che manca forse, nei confronti del nonno, di altrettanta comprensione che quella di lui, oltre che probabilmente di equidistanza –, la nipote Maria Luisa Aguirre D’Amico riprende a sua volta un ricordo della madre:

.

La copertina di "Vivere con Pirandello" di Maria Luisa Aguirre D'Amico«…I fratelli litigavano. Lietta si ricordava che Fausto andava dal padre, seduto dietro la scrivania, per fare le rimostranze contro Stefano. Il padre, alzando per un momento gli occhi dal lavoro, diceva con aria terribile: “Stefano, bada che ti ammazzo!”. E Fausto, piccolo, con la lingua ancora imbrogliata, lo interrogava preoccupato: “Lo amassi davvero?”…»

Maria Luisa Aguirre D’Amico, Vivere con Pirandello, Milano : Mondadori, 1990, p. 34.

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In estrema sintesi

La sintesi è di
Elio Gioanola, in Pirandello’s story : la vita o si vive o si scrive, Milano: Jaca Book, 2007, p. 266.

C’è la vedova rimasta con due bambini piccoli, che sposa un insegnante, ha una gravidanza gemellare, abortisce e poi muore. Lui si ritrova con due bambini non suoi da allevare, compassionato dalle vicine, che non disdegnerebbero di sposarlo per via dello stipendio sicuro. Ma il protagonista si risposa con un’altra che non è del giro, per cui le maligne zitelle del vicinato lo accusano di maltrattamento dei figli, fino a farlo invecchiare di dieci anni e infine morire per il dispiacere.

Nota bene.

– Com’è evidente, le immagini riguardanti la famiglia Pirandello o chiunque non hanno riferimento diretto col testo. –

et quod sequitur
Maria Amici


“Prima notte”, novella di Luigi Pirandello

– Novelle per un anno –

Prima notte

Novella di Luigi Pirandello, pubblicata sul settimanale Il Marzocco, rivista fiorentina di letteratura e arte, il 18 novembre 1900; confluì nella raccolta Bianche e nere, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1904; poi in Novelle per un anno: Scialle nero, 1922.

In tale edizione, qui ripresa, è reperibile sul meritorio PirandelloWeb

Il Marzocco n. 48 del 2 Dicembre 1900. - Firenze : Tip. L. Franceschini, 1896-1932. - 37 v. ; 58 cm. Settimanale. - Poi editore: Vallecchi. - 50 cm.

Il Marzocco n. 48 del 2 Dicembre 1900

L’amore, la sessualità – specie, ma non solo, se negati da altri o inibiti per scelta personale propria –, il matrimonio, si ritrovano spesso nell’opera pirandelliana indissolubilmente legati al dominio lessicale e metaforico, contestuale e narrativo della
| morte | : tanto che Sciascia noterà: «Sempre in Pirandello l’amore avrà questo sentore di morte»*.

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Pirandello tra il 1870 e il 1873 – Immagine in pubblico dominio

Né sarà necessario scomodare il precoce macabro episodio* dell’iniziazione indiretta tra i cadaveri nella camera mortuaria – e quindi indelebilmente connotata dall’oscurità della colpa, tra «un frullìo e un ansimare» di una coppia clandestina, e dall’opprimente orrore della morte, della fragilità, del degrado –, a spiegare un personalissimo, intimo sgomento psicologico che non solo rifugge da spiegazioni sovrastrutturali (sociali, etiche, religiose..) ma soprattutto, malgrado gli accenni anche a particolari biografici nella sua opera, dall’Autore girgentino è schermato da un velo di enigmatica discrezione che tali allusioni proietta, sfuggenti, nell’indeterminatezza.

Se il matrimonio può essere considerato un trapasso ad altra vita, quale ne sia la consistenza reale si può ben comprendere infatti dalle connotazioni lugubri, funeree, luttuose che esso assume: e la novella che qui leggiamo ne è una chiara metafora.

Famiglia Pirandello a Soriano nel Cimino, con Rosso di San Secondo? e altri - forse Romagnoli?-, 1908-1912?

Famiglia Pirandello a Soriano nel Cimino, con Rosso di San Secondo(?) e altri, tra il 1908 e il 1912(?)*

Il mutamento sotteso al coinvolgimento nell’amore è di per sé frequentemente significato da Pirandello quale accesso (quasi un salto) in un «cerchio magico»*, un tuffo “ad occhi chiusi”* che può tradursi ugualmente in vita o morte: e morte anche dell’amore, nel momento stesso in cui quel cerchio allude alla realizzazione dell’amore stesso*.

Nelle opere del Girgentino, quasi mai amore e suo culmine-concretizzazione nel matrimonio – unica scelta ritenuta possibile ma ugualmente esiziale – si rivelano dinamiche strettamente collegate e compatibili. Se persiste l’uno, l’altro è

Pirandello legge a Marta Abba "Trovarsi", Lido di Camaiore, Agosto? 1932

Pirandello legge a Marta Abba “Trovarsi”, Lido di Camaiore, Agosto? 1932

per una rete di reciproci ‘veti’ impossibilitato quasi per proteggere quell’amore; se si addiviene all’altro, non è con chi si ama, o proprio il matrimonio catalizza una serie di sventure rovinose che annichilano l’amore e la persona stessa, come puntualizzano il citato Gioanola ma soprattutto una serie di occorrenze nell’opera pirandelliana*.

Tale concezione, come premesso, non si rifà solo alle contingenze sociali e storiche o biografiche, ma ritrova echi in un’intimità misteriosa, pura e turbata insieme, radicata nell’uomo Pirandello a profondità primigenie:  tuttavia, come l’Autore implicitamente denuncia, nella società a lui contemporanea – e ben al di là della propria esperienza sa che

Quietanza di Stefano Pirandello per somme prestategli dal genero Alfonso Agrò, 1900

Quietanza di Stefano Pirandello per somme prestategli dal genero Alfonso Agrò, 1900

l’uso percorre i secoli –, l’impulso al matrimonio di solito non ha connessione alcuna con motivazioni sentimentali ma proviene, particolare usuale e già svilente, dall’interesse economico.

Nel caso di Prima notte, si profila la necessità di dare sistemazione alla figlia, dopo la tragica morte del padre doganiere, che con altri due colleghi è perito in mare: e quel mare la cui massa livida e grigia si richiude sui naufraghi greve come il coperchio di una bara, ai lettori non solo di Verga e di Melville evoca e ribadisce associazioni funebri.

Di esse la novella è intessuta.

donne con scialle nero - immagine reperita su webNon solo il padre è morto, alla protagonista allora giovanissima, Marastella, pregiudicandole così – in un tale contesto – il futuro, ma altresì, nello stesso incidente sul lavoro, l’uomo segretamente amato. Ai funerali, quando le sfugge un singhiozzo disperato, inequivocabile, la madre di questi, stringendola a sé

«come per farla sua, sua e di lui, del figlio morto»

e ‘riconoscendola’ come «figlia», a lui assimilandola, per i parametri di quel sistema culturale atavico la ‘seppellisce’ socialmente insieme col proprio figlio.

La madre di lei, Mamm’Anto’, tuttavia non demorde: per sette anni tutto sacrifica per prepararle un corredo, con l’enumerazione delle componenti del quale la novella si apre: ma subito interviene a riaffermare il quadro di riferimento fondamentale la cassa in cui sono conservati i capi del corredo, che dovrebbero essere promessa di un futuro nuovo, di una nuova vita, e invece acquistano la connotazione d’un sudario:

«la vecchia cassapanca d’abete, lunga e stretta che pareva una bara».

D’altronde, anche l’abito da sposa non è bianco ma grigio: «una galanteria», ma perfettamente consono.

Lo sposo, don Lisi Chirico, non sfugge alla medesima atmosfera.

Foto scattata nel giorno del fidanzamento di Lietta. Da sinistra, Fausto, Luigi, Lietta, ?, Stefano?; alle spalle di Lietta, il fidanzato, il maggiore Manuel Aguirre Humeres, addetto militare dell'Ambasciata del Cile presso il Quirinale

Foto scattata nel giorno del fidanzamento di Lietta. Da sinistra, Fausto, Luigi, Lietta, ?, Stefano?; alle spalle di Lietta, il fidanzato, il maggiore Manuel Aguirre Humeres, addetto militare dell’Ambasciata del Cile presso il Quirinale

La prima considerazione che su di lui oppone alla scelta materna Marastella è il suo esser «quasi vecchio». Non è naturalmente solo un dato fisiologico ma storico-antropologico: come tipico sin dalle società arcaiche, in cui frequente e prevista in una prospettiva di potere e autorità era la distanza anagrafica tra sposo e consorte, per cui la fanciulla dalla tutela paterna passava a quella analoga del marito – coetaneo del padre,

«sarebbe stato […], di quest’altra [moglie], padre e marito insieme»,

così si propone lo stesso Chirico.

Man mano nella novella si punteggiano le osservazioni sull’aspetto fatiscente dello sposo, aggravato sia dalla barba bianca sia dall’impressione delle guance incavate dopo che se la rade per apparire ..più giovane.

In più egli, sì, ha uno stipendio fisso, però come becchino, e infatti abita accanto al cimitero: cosicché la sposa andrebbe ad abitare in una «cameretta bianca, pulita, piena d’aria»: un’aggettivazione che talora accompagna nell’immaginario comune la camera mortuaria.

E’ inoltre un vedovo inconsolabile – tanto che si lamenta con la sorella perché vorrebbe limitare i ‘festeggiamenti’ sponsali per non distaccarsi da un’atmosfera di lutto -: ma subito interviene, in quelle mentalità primitive, la motivazione greve, materiale e utilitaristica. Principalmente, si risposava

«più per forza che per amore, dopo un anno appena di vedovanza, perché aveva bisogno d’una donna lassù, che badasse alla casa e gli cucinasse la sera. Ecco perché si riammogliava»:

perché ha bisogno, dunque, e un bisogno che non ha nulla di spirituale.

Foto di famiglia 1888: i genitori Stefano e Caterina, i fratelli Enzo e Giovanni, la  sorella Annetta. N.b. sul libro che il padre tiene fra le mani, una mano ignota ha scritto a penna Mal Giocondo

Foto di famiglia 1888: i genitori Stefano e Caterina, i fratelli Enzo e Giovanni, la sorella Annetta. N.b. sul libro che il padre tiene fra le mani, una mano ignota ha scritto a penna Mal Giocondo

Anche questo risulta dato assolutamente non insolito sia nella società e nella psicologia indotta, sia nella pensosa, corrosiva elaborazione nelle novelle pirandelliane: un dato che, insieme con l’interesse della famiglia d’origine alla ‘sistemazione’ della figlia, ribadisce la condizione femminile di sudditanza all’interesse economico e materiale in ogni senso, così come l’interesse spesso eminentemente legato, nel maschio, a risolvere il soddisfacimento del bisogno sessuale e dell’economia domestica, a ribadire la traumatica condizione umana, esistenziale, per come essa via via s’aggroviglia.

Che la cerimonia nuziale sia un corrispettivo di quella funebre è sottolineato da più segnali: l’accompagnamento alla sposa nella sua nuova casa e poi lo sfilare degli invitati nel loro ritorno verso le proprie case si configura come un corteo funebre, senz’altro ribadito sia dai partecipanti sia dagli osservatori:

«Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale. E nel vederlo passare, la gente, affacciata alle porte, alle finestre, o fermandosi per via, sospirava: – Povera sposa!»

Come si confà più al funerale che alle nozze, bagnate tradizionalmente di un pianto diverso

(«Piange la figlia nel lasciare la madre; piange la madre nel lasciare la figlia. Si sa!»),

scorrono lacrime continue, prima e dopo il momento dell’unione in matrimonio, e soprattutto quando, dopo la festa nuziale, gli invitati defluiscono, e poi coloro che hanno accompagnato la sposa alla sua nuova residenza se ne tornano a casa lasciandola sola con la madre e due amiche, allontanatosi lo sposo per suonare l’avemaria serale, interpretabile in tanti sensi come un segnale di congedo.

Luigi Pirandello, La Trappola. Progetti di copertina per libro. Olio su tela. Collez. privata. Immagine reperita su web

Luigi Pirandello, La Trappola. Progetti di copertina per libro. Olio su tela. Collez. privata. Immagine reperita su web

Ricollegabile al, tutto pirandelliano, sistema di apparenze e finzioni che la madre della sposa e la sorella dello sposo tentano di costruire per invogliare (intrappolare, si direbbe, con parola chiave?) la sposina, e intanto mistificandone e fraintendendone le reazioni, già attivato nell’iniziale tentativo di mitigare le perplessità di Marastella sul ‘pretendente’, la madre di fronte alle sue lacrime risulta estranea alle ragioni intime del dolore della figlia, le reinterpreta nel modo che più può a sua volta seppellire non solo nel non detto ma nell’obnubilamento della consapevolezza. (Altro che profondità del legame affettivo familiare, di cui cianciano alcune analisi non solo su web quale tema della novella…)

Più sagace invece lo sposo:

«Comprendeva e compativa. Aveva coscienza che la sua persona triste, invecchiata, imbruttita, non poteva ispirare alla sposa né affetto né confidenza: si sentiva anche lui il cuore pieno di lagrime».

La commozione è peraltro subito riportata ad una chiusura nell’ego: non può ammettere in sé che la moglie precedente, nessun’altra che la moglie defunta egli può piangere. E tuttavia dinanzi alla ‘sua’ «crocetta di quel camposanto» da lei aveva preso commiato, s’era «licenziato», dacché aveva promesso che

«sarebbe stato tutto di quest’altra, padre e marito insieme; ma le nuove cure per la sposa non gli avrebbero fatto trascurare quelle che da tant’anni si prendeva amorosamente di tutti coloro, amici o ignoti, che dormivano lassù sotto la sua custodia.
Lo aveva promesso a tutte le croci in quel giro notturno, la sera avanti».

In definitiva, il legame avvertito come insolubile, imprescindibile, non è quello con la donna, non con la moglie morta né con quella viva: bensì quello con i ‘suoi’ morti, ribadito dalla promessa di proseguirne la cura, la «custodia». Non si vive che in funzione della morte.

La conclusione della novella, con quella sua venatura di paradosso umoristico, è consequenziale, e ancora una volta si distacca dall’ambito realistico-naturalista che pur fa da ambientazione alle novelle di Pirandello.

Ormai soli, la sposa chiede allo sposo di condurla alla tomba del padre, ma il becchino sa bene chi ella cerchi: «C’è anche lo Sparti», l’avverte brevemente.

L’uomo un tempo amato condivide la porzione del cimitero così come il regno dei morti col padre (nuovamente unificate, le due figure), ed entrambi di fatto avevano seppellito e assimilato a sé anche Marastella*.

Cimitero di Pere Lachaise

Cimitero di Pere Lachaise

I due così, marito e moglie, si aggirano nel cimitero, al «lume» evocativo della «lanterna del cielo», alla ricerca dell’altro, del proprio doppio, del corrispettivo in cui sono evidentemente annullati, assimilati e morti essi stessi al mondo, in un’esclusione sancita come definitiva.

Marastella sulla tomba del suo vecchio pretendente, don Lisi su quella della moglie, si abbandonano al pianto disperato e da esso più che da ogni altra cosa sono accomunati: ed è questa la loro Prima notte, in cui pure, presenziando Ecate – la luna – si celebra un’unione e una ulteriore comunanza alternativa, ancora più ancestrale, col mondo dei morti.

Così come la vita presente e reale in tutte le sue componenti, personaggi, atti, luoghi, parole, è continuamente rimetaforizzata dai rinvii lessicali al dominio funebre, altresì di fatto sfuma continuamente nella predominante, ingombrante presenza e contiguità della morte, del cimitero, delle tombe, di una devozione persistente che, nella prospettiva dell’effimero di fronte ad una condizione segnata dall’eterno, soggioga ed esclude ogni altra.

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 Un consiglio per la bibliografia
– e note –

* Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Caltanissetta-Roma : S.Sciascia, 1961; Milano : Adelphi, 1996. E precisamente:

«Sempre in Pirandello l’amore avrà questo sentore di morte. Non l’idea della morte: ma la fisica putrescente presenza della morte. O sarà intorbidato dalla pazzia. O avvelenato dalla incomprensione e dai tradimenti».

La copertina de "L'uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino", di Luigi Filippo D'Amico

La copertina de “L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino”, di Luigi Filippo D’Amico

* Alla traumatica rivelazione dell’amore carnale che sarebbe incolta al Pirandello bambino nella torre adibita a obitorio, si trova cenno in Luigi Filippo D’Amico, L’uomo delle contraddizioni: Pirandello visto da vicino, Palermo : Sellerio, 2007 (anche in Pirandello visto da vicino. Dieci conversazioni di L.F. Camilleri, Biografia del figlio cambiato copertinaD’Amico per il Terzo Anello di Radio3), che farebbe tesoro di racconti della suocera Lietta; in Marco Manotta: Luigi Pirandello, Milano : B. Mondadori, 1998; in Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato,  Milano : Rizzoli 2000; in Elio Gioanola, Pirandello’s story: la vita o si vive o si scrive, Milano: Jaca Book, 2007; e inoltre in Luciano Lucignani, Un uomo solo, laRepubblica 02.12.1986.

Valeria Moriconi in Trovarsi, di Luigi Pirandello, regia G. Patroni Griffi

Valeria Moriconi in Trovarsi, di Luigi Pirandello, regia G. Patroni Griffi

* Il «cerchio magico» ha una valenza misterica, secondo la concezione atavica ripresa dalla Grecia arcaica, così come la ha in quella sorta di girotondo delle bambine che, tradotto, si chiamava tartatartaruga; il sintagma è ad esempio tratto da La rosa, reperibile su PirandelloWeb. Ci si sofferma su di esso nella lettura de La rosa su Nephelai).

Pirandello: Trovarsi, ed. Mursia. In copertina, Marta Abba

Pirandello: Trovarsi, ed. Mursia. In copertina, Marta Abba

* «Chi ama, chiude gli occhi» è, per esempio, proprio uno dei nodi fondamentali (ribadito dalle numerose occorrenze del sintagma ‘chiudere gli occhi’) che aggruma la situazione umana ed esistenziale della donna e della donna-attrice, e in assoluto dell’Uomo, nel Trovarsi scritto nel luglio-agosto 1932 e rappresentato il successivo 4 novembre. Reperibile su PirandelloWeb qui.

* Forse su questa stessa foto a Soriano – che, nel caso, sarebbe “datata 1910: con alle spalle la mole del Castello Orsini, un gruppo di signori posa davanti all’obiettivo. Pirandello vi appare con la moglie e i figli, accanto al commediografo Pier Maria Rosso di San Secondo e al grecista Ettore Romagnoli” – si veda l’articolo di Matteo Collura Pirandello in fuga dal suo “personaggio”, pubblicato sul Corriere della Sera dell’11 agosto 1997, reperito su web.

* Si legga per esempio la già citata La rosa su Nephelai.

* Per tali considerazioni in particolare non ci si limita a Gioanola, infra citato, p. 261.

Maria Callas interpreta la Medea di P.P. Pasolini (1969)* Nell’antichità greca e latina era connesso al processo di identificazione nel lutto, per esempio, che specie le donne (ma non solo) nel compianto funebre si strappassero i capelli, si lacerassero gli abiti e si coprissero il capo di terra e cenere per rendersi simili, identificandosi, ai loro morti.
Tanto che presto, per chi se lo poteva permettere, si ovviò al disagio con la creazione di una figura ‘professionale’, la prefica (il lemma deriva dal latino praefica), che compiva, prezzolata, quegli atti e tramandava le nenie funebri.

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In estrema sintesi

La sintesi è di
Elio Gioanola, in Pirandello’s story: la vita o si vive o si scrive, Milano: Jaca Book, 2007, p. 261.

“Una ragazza perde il fidanzato in un naufragio e la madre le trova come marito un vedovo che può contare, come becchino, su una paga di cinque lire al giorno: «Pareva un mortorio, anziché un corteo nuziale»”.

Nota bene.

– Le immagini riguardanti la famiglia Pirandello o Marta Abba o chiunque non hanno riferimento diretto col testo. –

et quod sequitur

Maria Amici


“..la pazzia di mia moglie sono io…”

Pirandello tra il 1905 e il 1907 - This photograph is in the public domain in Italy, L.633/1941

Pirandello tra il 1905 e il 1907

  Luigi Pirandello, lettera a Ugo Ojetti, 10 aprile 1914.

– Il testo parziale della lettera è tratto da “Biografia del figlio cambiato”, di Andrea Camilleri; note e riflessioni sono mie -.

Mio caro Ugo,
non so che dire!

La lunga lettera* dell’Albertini, sì, cortesissima, rispettosissima, è vero, ma è stato per me in questo momento, Ugo mio, un vero colpo di grazia!

Ugo Ojetti

Ugo Ojetti

Ti dico il perché… ma già forse da un pezzo ti sarà arrivata agli orecchi la notizia delle mie immeritamente sciagurate condizioni familiari. Non è vero? Ho la moglie, caro Ugo, da cinque* anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io – il che ti dimostra senz’altro che è una vera pazzia – io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato del tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto d’adombrarsi. Ma non è giovato a nulla, purtroppo; perché nulla può giovare! I medici hanno dichiarato che è una forma irrimediabile di paranoja*, del resto ereditaria nella sua famiglia.

Un frammento della lettera di Pirandello a Ugo Ojetti, 1914

“Non mi pare di meritarmi un siffatto trattamento. Sono stato umile e remissivo, tanto con il “Corriere” quanto con “La Lettura”… non mi son mai avuto a male, se mi hanno rimandato qualche novella… Ma che vogliano fare così anche con un romanzo, no!”

Non ti darei l’afflizione di sentire direttamente da me queste notizie, mio vecchio amico, se la disgrazia che mi capita adesso con l’Albertini non avesse qualche attinenza con essa.

Intenderai facilmente, che per quanto io guadagni lavorando in queste condizioni, per quanto ella, mia moglie, abbia di suo un discreto reddito, non c’è denaro che basti: tutto quello che entra è subito ingojato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia.

Famiglia Pirandello con Antonietta e figli piccoli: Lietta, Stefano, Fausto

Famiglia Pirandello con Antonietta e figli piccoli: Lietta, Stefano, Fausto

Ora è qua con me; ma lunedì, proprio lunedì venturo partirà di nuovo per la Sicilia: ha già i bauli pronti, e mi toccherà andarla a lasciare a Girgenti con uno dei figliuoli.

M’arriva a buon punto, come vedi, questo rifiuto del romanzo, su cui contavo per far fronte a bisogni gravi e urgenti„

N.B.

 * Con la lettera cui Pirandello accenna, autorevolmente Albertini, direttore del “Corriere della Sera”, piuttosto che Renato Simoni, il direttore del supplemento “La lettura” per il quale era stato proposto, rifiuta di pubblicare a puntate il romanzo “Si gira” (che sarà poi intitolato “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”).

Maria Antonietta Portulano con la figlia Lietta bambina

Maria Antonietta Portulano con la figlia Lietta bambina

 * Pirandello qui rannoda l’inizio della pazzia della moglie al 1909, non al 1903, l’anno del disastro della zolfara in cui Stefano Pirandello aveva investito i soldi della dote di Antonietta -l’allagamento in cui si perdono uomini e materiali e denaro-, alla notizia del quale Antonietta ha una crisi: non la prima peraltro, ma a seguito della quale rimane temporaneamente paralizzata – tempo dopo ne guarirà grazie alle cure profuse dal marito.

Nel 1909 muore invece il suocero, Calogero Portulano: che nella mente di Antonietta – per quanto invero fosse stato assai manchevole come padre – restava il suo sostegno e la sua indipendenza, o comunque autorità, economica, dacché anche dopo sfumata la dote quegli era stato tenuto alla reintegrazione di essa – e peraltro aveva scelto di usare “titoli non trasferibili di reddito minimo per fare un ulteriore dispetto” a Luigi, come commenta Camilleri –; il padre, che inoltre le scriveva, richiesto dal genero, nei momenti dei più gravi accessi della malattia, in modo da tentare di tranquillizzarla – probabilmente di restituirle la dimensione a lei più familiare, quella inculcatale, di figlia bambina che non era stata educata a crescere, piuttosto che di donna, moglie, madre.

Il villino Catalisano, la residenza in affitto a Girgenti, tra 1896 e 1906. Foto in pubblico dominio L.633/1941

Il villino Catalisano, la residenza in affitto a Girgenti, tra 1896 e 1906

Antonietta ne ha un ulteriore peggioramento: tale che, per la sua eccessiva turbolenza e per le scenate furibonde di gelosia – in cui non si limita a inveire contro le cameriere e a mandare in frantumi stoviglie e  porcellane -, il marito deve spesso prendere una stanza in affitto altrove e allontanarsi di casa, o – per volere di lei – accompagnare la moglie in Sicilia con i figli più piccoli, a Bonamorone dove viveva il padre e la donna sarebbe restata con i fratelli, o in seguito, non potendo o non volendo più essi, con una cameriera in una residenza da Luigi presa in affitto, il villino Catalisano, vicino a Girgenti ma in campagna, con vista in lontananza sul mare.

     Elio Gioanola, critico letterario di taglio “psicanalitico”, nel suo Pirandello’s Story. La vita o si vive o si scrive(Milano, Jaca Book, 2007) p. 260, spiega altrimenti il mutamento del 1909 e che venga risentito da Pirandello come il momento di scaturigine della follia: “Pirandello fa

la casa di Calogero Portulano a Girgenti

datare l’inizio della follia della moglie dal 1909, che è l’anno della morte di Portolano, quando Antonietta si fa forte dell’eredità paterna e può permettersi l’ossessivo andirivieni tra Roma e Girgenti, dove ha casa e poderi, dando vita così alle ricorrenti, complicate separazioni provvisorie dal marito (lei non accetterà mai la separazione legale e continuerà a firmarsi, anche dopo il ricovero, Antonietta Pirandello*). Ma sappiamo bene come la follia mostri traccia della sua presenza fin dalle origini della vita coniugale, come aveva preannunciato lo zio Vincenzo”.

– A questo proposito, precedentemente (p. 232) il critico aveva citato – a proposito della rinuncia al matrimonio, da parte di Luigi, nel 1892, a causa delle asfissianti condizioni imposte da Calogero Portulano – un’iniziativa di “Vincenzo, fratello di mamma Caterina”, che mandò una lettera di “congratulazioni per lo scampato pericolo insieme a questo inquietante sigillo: «Antonietta è figlia di due pazzi gelosi e sarebbe stata pazzissima più dei genitori»”.

En passant noto che altri studiosi, e la nipote di Pirandello stesso, Maria Luisa Aguirre D’Amico (nel suo “Vivere con Pirandello”), non presenta ugualmente la disposizione di Antonietta alla separazione legale.

– Nel certificato medico stilato in seguito (probabilmente in occasione del ricovero di Antonietta nella casa di salute “Villa Giuseppina”, sulla via Nomentana, a Roma), l’11 gennaio 1919, dal dottor Ferruccio Montesano della Regia Università di Roma “La Sapienza”, si legge che «Portulano Antonietta in Pirandello affetta da delirio paranoide si è resa pericolosa per sé e per gli altri».

Luigi, Antonietta, Lietta e Fausto in una fotografia che fu inviata a Stefano sottotenente prigioniero a Mauthausen tra il 1915 e il 1918 - This photograph is in the public domain in Italy, L.633/1941

Luigi, Antonietta, Lietta e Fausto in una fotografia che fu inviata a Stefano sottotenente prigioniero a Mauthausen tra il 1915 e il 1918 – Fotografia in pubblico dominio, L.633/1941

Tuttavia, Pirandello per più di vent’anni, malgrado tutto, aveva rifiutato, nonostante le pressioni dei medici, di ricoverare la moglie in una clinica, vulgo manicomio: anche quando l’alterazione del suo stato mentale aveva comportato aggressioni non solo verbali a lui, accuse insensate a lui e alla figlia, la necessità addirittura che anche Lietta lasciasse per qualche tempo la casa. Non tanto, forse, per scontare d’essere il marito che, preso dall’arte “le sfugge in una dimensione a lei  ignota” (l’espressione -il misunderstanding?-, è  di  Sciascia,

Luigi Pirandello

e così ripreso da Camilleri) ma per la speranza e l’errore – per tanti critici abissale! – d’aver voluto, quella dimensione altra e alta, condividerla con la donna cui aveva legato la sua esistenza e cui d’esser unito per la vita –lui così profondamente leale, fedele e monogamo –,  nel bene e nel male, aveva promesso: e mantenne, a costo di consumarsi, malgrado avesse potuto in seguito trovare in un’altra donna una più profonda comunione spirituale e intellettuale – ma, e una volta di più,  forse non l’amore.

et quod sequitur
Maria Amici


Tra gioia e dolore…

‎… la gustosa fase di ..‘imbecillimento’ di un nonno illustre, un’eccezione in epistolari segnati dalla sofferenza e dal ‘male di vivere’.

Pirandello con la nipote Maria Antonietta, Ninnì, tra il 1920 e il 1922 - This photograph is in the public domain in Italy, L.633:1941

“..La pupina cresce a vista d’occhio, grassottella e vivace.

Somiglia molto a Stenù piccolo;

ha gli stessi occhi turchini intensi, ma con due vispi puntini di luce; e già a un mese e qualche giorno comincia a far qualche smorfietta con la bocca che si può interpretare come un sorrisino.

  Sorrisini veri, sorrisini di qualità, sorrisini di chi sa il fatto suo, sono quelli di Manolo, non confondiamo, ormai vecchio d’esperienza, a otto mesi sonati, che certe pupine alte come un soldo di cacio, puh! appena appena con la coda dell’occhio le vogliamo guadare, passando, e dall’alto in basso.

Manolo Aguirre Pirandello, primogenito di Lietta (1922+1925). Photo in public domain

  Ma qua la pupina dice che, femminuccia com’è, quando lo vedrà, se lui vorrà far lo sdegnoso, farà la sdegnosa anche lei, e ci riuscirà meglio, femminuccia com’è!

  Allora Nonno persuaderà Manolo che con le femminucce è meglio non mettercisi, perché nascono sempre, in certe cose, più vecchie dei maschietti.
– Datevi la manina; datevi un bel bacino; e non ne parliamo più. – 

  Manolo son sicuro che m’ubbidirà.
Caro Manolo mio, che ci vuoi fare? Femminucce, si dànno le arie: bisogna compatirle. Accavalciamo una gamba, e mettiamoci a pensare ad altro. Hai letto che belle notizie portano oggi i giornali? No, la pipa ancora no; ti farò un rotolino di carta e così farai vedere alla pipetta che tu sai già fumare e leggere il giornale. Credi che questo al tuo amor proprio maschile può bastare…”

“…Lillinetta mia, ti dò un saggio di come il vecchio papà tuo è disposto a imbecillirsi coi suoi nipotini. Ma ci vuole presto qua la mia Lillinetta col mio piccolo Manolo; se no il giuoco non si può fare. Quando sarà?..”

  Chi scrive – e spontaneamente ‘drammatizza’, in una divertita ‘messa in scena’, in pochi tratti – è Luigi Pirandello, in una lettera del 1923 alla figlia Lietta in Cile: uno spiraglio di gioia, in una lettera peraltro intrisa di nostalgia profonda e senso della perdita, che difficilmente sa trovare spiegazione a se stessa e non si dà requie.

  La “pupina” è Maria Antonietta, la figlia neonata del figlio Stefano e della moglie Olinda Labroca, fine musicista; Manolo è il cuginetto maggiore, figlio di Lietta e Manuel Aguirre Humeres, nato nel 1922.

  Maria Antonietta, “Ninnì”, fu tra i prediletti del nonno; non meno il cuginetto, segnato dai postumi di un parto dagli esiti tragici e da essi purtroppo morto in tenerissima età.

Aurelio De Felice, bustino in bronzo che ritrae Ninì (Maria Antonietta) Pirandello, 1942

 Anche Ninì Pirandello – come fu nota da adulta, gallerista e ispiratrice d’artisti – morì precocemente, nel 1971.  Aurelio De Felice la immortalò in un bustino in bronzo del 1942; a lei, post mortem, furono dedicati gli intriganti “Nini’s paintings” di Cy Twombly, tentativo arduo di esprimere su tela quel “dolore della perdita” che non ha nome né sa trovare parole né segni.

Maria Amici

“Nini’s paintings”, Cy Twombly, 1971 - Images in lowest resolution, used for illustrative purposes only“Nini’s paintings”, Cy Twombly, 1971 - Images in lowest resolution, used for illustrative purposes only

“Nini’s paintings”, Cy Twombly, 1971 - Images in lowest resolution, used for illustrative purposes only

“Nini’s paintings”, Cy Twombly, 1971 - Images in lowest resolution, used for illustrative purposes only“Nini’s paintings”, Cy Twombly, 1971 - Images in lowest resolution, used for illustrative purposes only


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